L’ombrello.

Un pomeriggio di gennaio di alcuni anni fa, colto dalla pioggia battente, comprai un ombrello in un negozio di Boulevard Saint-Germain. Era un oggetto di scarso valore, legato a un’esigenza immediata e che credevo destinato a fare la fine di tutti gli altri ombrelli passati tra le mie mani: perso in una stazione o rotto al primo refolo di Bora.

Quella passeggiata fu uno degli ultimi giri da flaneur: di lì a poco, avrei salutato Parigi una volta per tutte e avrei voltato pagina, relegando al passato i volti e i sentimenti che mi ci avevano trascinato.

Per tutto questo tempo quell’ombrello ha avuto per me un forte valore simbolico. Ogni volta che mi serviva, aprendolo mi veniva a trovare il ricordo di un vecchio amore, dolce e doloroso allo stesso tempo. Per anni mi sono ritrovato a desiderare che quell’oggetto si rompesse una volta per tutte, costringendomi a cambiarlo, o di trovare la forza di liberarmene una volta per tutte. Invece ha resistito. Almeno tre volte ho creduto di essermene liberato ma è sempre rispuntato: riconsegnato da un passante, ritrovato in un parcheggio o all’ufficio oggetti smarriti.

La settimana scorsa è ripreso a piovere. Ho portato la mano alla tasca dello zaino dove lo tengo ma l’ombrello non era più lì. Mi sono inzuppato per una settimana, non arrendendomi all’idea e sperando che rispuntasse.
Oggi ho deciso che non valeva più la pena di bagnarsi e ho comprato finalmente un ombrello nuovo.

Mi domando quali strade stiano percorrendo i tuoi passi, quali parole straniere stia pronunciando la tua bocca, quali volti illuminerai dispiegando un sorriso.

Mi domando se riuscirò a scoprire nuovi momenti di felicità così puri, se amerò, desidererò, possederò qualcuno con la stessa intensità.

Mi pare di aver perso la formula della felicità. Quella che mi faceva solcare il mare.

 

 

 

Fare l’amore

Prima che la memoria si affievolisca voglio mettere nero su bianco tutti i luoghi in cui io e te abbiamo fatto l’amore; non posso sopportare di perderne il ricordo e voglio un posto in cui ritornare quando mi vorrò ricordare che cosa significa essere felici.

Il letto dei miei genitori – ed è stata una nuova prima volta.
In una delle camere di Ivo, nel centro storico di Zena, arredata con icone bizantine e candelabri d’ottone (e nella stessa camera, ubriachi, dopo aver sentito l’Orchestra Bailam).
Su un’amaca appesa in un campo di ulivi, a Portovenere.
Su una vecchia poltrona, ad Alpe di Gorreto, lontano da tutto.
Sul divano di vimini della casetta di Sant’Ilario, con una delle viste più belle del mondo.
Accanto a una cascata del Corsalone, alla otto di sera.
Prima a Ischia e poi a Napoli, facendo piano per non farci sentire.
Nascosti tra gli scogli di Framura, intorno alle cinque del pomeriggio.
Nel bosco di Casella, una domenica mattina.
Nella casetta di Poppi, dopo aver mangiato la mortadella di cinghiale.
In Garfagnana, con le castagne nel forno.
A Trieste, dopo aver fatto l’albero di Natale.
Nella casetta del Vincio, a Pistoia: con il cane che abbaiava ogni volta che passavamo.
A Bersezio, in una spiaggia di ciottoli raggiungibile solo a nuoto.
Nella casetta di Baestre, con la vista sul lago di Brugneto.
A Bures-sur-Yvette, la domenica pomeriggio sul divano.

Se chiudo gli occhi mi illudo di averlo fatto anche a Istabul, anche se non ci siamo mai stati insieme.

Ti ho desiderato come non pensavo si potesse desiderare.
E non voglio dimenticarmelo.

Succede l’impossibile.

Una delle ultime volte che mi sono affacciato qua sopra mi chiedevo cosa si provasse a tornare sui binari. Oggi mi domando perché desiderare i binari quando puoi solcare la vita come una nave.

Rimanendo nella metafora, il 2016 è stato l’anno in cui ho saputo ascoltarmi e sciogliere gli ormeggi. Ho navigato per un periodo piuttosto lungo con la costa a vista ma lo scorso anno ho lasciato finalmente il senso di colpa e le paure nel porto, nascosti tra le funi.

Ho imparato ad accettare il mondo come il luogo della possibilità e sono curioso, curioso e affamato di esperienza.

“Chissà cos’è che ci ha portato fino a qui,
qui a pochi millimetri, a migliaia di kilometri,
qui dentro questa camera succede l’impossibile,
succede l’impossibile”.

Cosmo – Impossibile

Il fiume

Ho i piedi appoggiati su un sasso, bianco. Osservo le gocce d’acqua sul loro dorso, spariscono lentamente, riscaldate dal sole del pomeriggio che muore. Sull’altra sponda del fiume c’è un gruppo di ragazzi; li vedo ridere e parlare, ma lo schiamazzo della loro adolescenza è inghiottito dal rumore della piccola cascata. È un salto artificiale, costruito con grandi pietre squadrate; e deve essere qui da molto tempo a giudicare da come alcune piante selvatiche hanno trovato come attecchire, rompendo le fughe tra i massi. L’acqua è verde e fredda; meno di quanto mi aspettassi ma richiede ad ogni modo un certo sforzo per superare la naturale ritrosia a tuffarsi.Sono venuto in questo posto ieri per la prima volta e mi sono accorto di esserci già stato.

Rails

Mi domando se mai ce la farò a ritornare nella vita; un giorno sono scivolato fuori dai binari e non sono più riuscito a salire sul treno. Vedo i vagoni che corrono, lontano da me. Li vedo, ma a impedire la mia corsa si alza questo bosco fatto di frustrazione, impotenza, inadeguatezza. Vorrei sbuffare tutto fuori, come una vecchia locomotiva.

Si sollevano i congiuntivi, crescono i muri dei condizionali. Datemi certezze; non pretendo una pianura ma almeno un colle da cui possa vedere le cose un po’ più chiaramente.

Ho riempito una scatola con le frustrazioni
i rimorsi e le paure.
Vola via appesa
a una mongolfiera.

Unica àncora
a cui mi aggrappo
quella in cui è scritto
“cambiamento”.